Cinque, sei, sette, otto.
Cominciava sempre così un esercizio.
Contando, come se quel tempo confezionato in musica, chiedesse di essere addomesticato.
Non faceva differenza uno strillo dell'insegnante o un dettato nella tua mente.
Dovevi contare, altrimenti perdevi il tempo e la musicalità...e tutto riusciva sconnesso.
O meglio, non riusciva.
E così ricominciavi, anche se avevi male dappertutto.
Perché il bastone in legno della tua insegnante batteva sul parquet dell'aula in quel "cinque, sei, sette, otto" che significava ricominciare daccapo.
Quel rumore di due legni dalla forma e dal colore diversi ma così vicini nel chiederti di continuare, ritmavano la tua forza e la tua resistenza, soprattutto quando un ginocchio non era teso o il collo del piede non era inarcato alla perfezione sulle punte.
Ricordo come se fosse ieri il leggero tocco del bastone sul mio ginocchio che, volente o nolente, doveva tendersi.
E soprattutto, il rumore di quel legno scricchiolante, testimone di ore ed ore di duro lavoro.
Capita spesso di fare i conti con noi stessi, soprattutto in quei momenti in cui ci guardiamo allo specchio e non ci bastiamo più, e su di noi percepiamo il peso dei giudizi o delle opinioni che gli altri si fanno o si sono fatti sul nostro conto.
Sono quasi dieci anni che ho smesso di ballare, ma quella disciplina rigida che ha accompagnato il mio corpo in tutti quegli anni della mia crescita, è entrata a far parte di me.
La danza classica è come una religione.
E' regola, sacrificio, rigidità, disciplina.
Una disciplina che, se ti accompagna per dodici anni, è inevitabile che ti entri dentro e ti accompagni per il resto della tua vita, facendoti diventare inflessibile anche con te stessa nel tuo quotidiano.
Provate a guardare una ballerina, quando, con il suo tutù e le sue scarpette, balla in un teatro davanti ad un pubblico.
Sorride.
Non si vede il dolore, non si vede il sacrificio, non si vede la regola, non si vede l'inflessibilità.
Ma prima di salire sul palco, quella ballerina è alla sua sbarra nelle aule di una scuola di danza, con nelle orecchie l'eco del rumore del bastone della sua insegnante che ritma il "cinque, sei, sette, otto" di un nuovo inizio.
Lì si vede la disciplina che solo pochi percepiscono.
E comprendono.
Sul palco della vita, accade più o meno la stessa cosa.
Se una persona si mostra in un determinato modo, tutti la guardano così come appare.
Come quando guardi una ballerina su un palco, che danza e sorride.
E pensi di aver scoperto l'essenza.
Se poi fai lo sforzo di uscire da quel teatro e di ritrovarti in una scuola di danza, fatta di aule enormi con altrettanti enormi specchi che tutto rivelano e tutto tradiscono, percepisci cosa sia la vera essenza, anche se la ballerina è la stessa.
Ci vuole un sforzo immane per volteggiare sulle punte, lo stesso sforzo, forse, che si ha nell'affrontare la vera essenza delle persone.
Fermarsi all'apparenza significa vedere.
Attraversare quell'apparenza e cogliere il profondo, significa guardare.
Non solo negli occhi, ma nell'anima di una persona.
Non tutti sono così come appaiono: hanno bisogno soltanto di essere scoperti a poco a poco.
Perché la vita non è fatta solo di lustrini e di luci accese su un palcoscenico, ma soprattutto di un tempo che chiede di essere vissuto e che solo a pochi è concesso di vivere.
A chi ha il coraggio di sbirciare in quelle sale enormi con enormi specchi e di guardare cosa c'è dentro.
Anche se questo significa aspettare un "cinque, sei, sette, otto", prima di ricominciare.